| Pubblicato su: | L'Ora, anno XXXIII, fasc. 59, p. 3 | ||
| Data: | 10 marzo 1932 |

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| Dobbiamo alla gentile condìscendenza della «Nnova Antologia» il privilegio di poter riprodurre le pagine finali dell'eccezionale saggio critico di Giovanni Papini per la medesima rivista, su la «Storia di Europa» di Benedetto Croce. |
Non li comprende, i convertiti, eppure vuol giudicarli: anzi si arrischia, con quella sua aria di pontefichino infallibile, a decidere quali siano i motivi interni e veri di tali conversioni. E non v'è da meravigliarsi se non ne azzecca una.
Quanto ai convertiti dell'epoca romantica furono, secondo lui, anime femminee, fantasiose, estetizzanti e, al solito, poco ortodosse. «Quel loro Cattolicismo troppo abbondava nel senso e nella immaginazione, troppo spasimava per colori, musiche, canti, antiche cattedrali, figure di madonne e di santi, troppo si crogiolava nella voluttà del peccato, della penitenza e del pianto...».
Ma le conversioni che maggiormente indispettiscono il Croce son quelle recenti, quelle, cioè, di cui parla nell'epilogo e che son avvenute, perciò, durante o dopo la guerra: «il Cattolicismo, che già aveva tentato di ripigliare forza attraverso l'irrazionalismo e il misticismo, ha accolto e viene accogliendo, in gran numero, anime deboli o indebolite e torbidi e malfidi avventurieri dello spirito». «Comunque, il motivo spirituale che ha spinto i migliori di costoro a rifugiarsi o a tornare al Cattolicismo... è stato non altro che il bisogno, nel tumulto delle idee, e dei sentimenti cozzanti e cangevoli, di una verità fissa e di una regola imposta: ossia una sfiducia e una rinunzia, una debolezza e un puerile spavento innanzi al concetto dell'assolutezza e relatività insieme di ogni verità e all'esigenza della continua critica e autocritica onde la verità a ogni istante si accresce e si rinnova. Ma un ideale morale non può conformarsi alle occorrenze dei deboli, degli sfiduciati e dei paurosi».
Con questo non voglio dire che il cristiano sia, sempre, una creatura tremebonda e dilaniata: vi sono remissioni dolcissime, conforti ineffabili, entusiasmi fecondi. Ma il Croce, che si compiace spesso di parlare d'una assolutezza ch'è relativa, di un oggetto ch'è pur soggetto, d'un errore ch'è insieme verità, dovrebbe, meglio d'altri, arrivare a capire una sicurezza ch'è inquietudine, un riposo ch'è battaglia, una protezione ch'è rischio, una pace ch'è timore. E tale, se ne rammenti, è lo stato d'animo dei cattolici il cui Cattolicismo non consiste soltanto nell'andare alla Messa tutte le domeniche e nel confessarsi per Pasqua.
Tra quelli più noti, degli ultimi venuti, si può ricordare, credo, un francese: Jacques Rivière; un inglese: G. K. Chesterton; un tedesco: Peter Wust; e un italiano: colui che scrive queste pagine. Non son tutti, ma rappresentano, insomma, varie classi di spiriti e i mag-giori paesi colti d'Europa.
Il Rivière, veramente, fin dal 1907 sentì il bisogno della fede e si comunicò per la prima volta al Natale del 1913. Ma solo durante la sua prigionia in Germania poté ricercare ed elaborare le ragioni della sua fede e se ne posson vedere i resultati in due libri pubblicati dopo la sua morte: A la trace de Dieu (1925); De la sincerité envers soi-méme (1925). È difficile trovare uno spirito più fine, autocritico e leale di quello del Rivière: sottile, inquieto, severo verso sé stesso, entusiasta e nello stesso tempo guardingo e sorvegliato: cervello d'intellettuale ardente e cuore d'artista. Si leggano le sue lettere e i suoi libri: non v'è traccia alcuna di quella paura, di quella debolezza, di quell'aspirazione a una requie vile che secondo il Croce sono i maggiori moventi d'una conversione.
Anche il Chesterton si poteva dir cattolico, come forma mentis, fin da quando pubblicò Heretics (1905) e soprattutto Ortkodozy (1908) ma siccome non è entrato ufficialmente nella Chiesa fino al 1922 può esser considerato, a scelta, tra i «deboli» o tra gli «avventurieri». Basta, però, leggere un sol volume suo per accorgersi che non può esser messo né tra gli uni né tra gli altri. Il Chesterton, anche quando par che faccia il chiassone e il forzatore, è sempre profondamente serio. È venuto alla Chiesa per un bisogno intellettuale d'armonia intera e coerente non già per colpo di fulmine o per vaghezza dei santi dipinti o delle pompe del culto. E non è entrato perché avesse paura delle ricerche e novità moderne, per paradossali o estreme che fossero, ché anzi il suo spirito pronto e ardito ci sguazzerebbe dentro meglio che nell'ortodossia. Ma ha visto, dopo lunghe esperienze e meditazioni, che soltanto nel Cattolicismo tutte le attività migliori dell'anima e del corpo trovano la piena loro soddisfazione e conclude che «l'ortodossia non è soltanto, come si dice spesso, la sola custode di una moralità e dell'ordine, ma anche l'unica salvaguardia logica della libertà, dell'innovazione e del progresso». Ecco dunque un uomo moderno, coltissimo, che non si fa cattolico per paura della libertà o per nostalgia del passato. E in Chesterton, nella vita e nell'opera, altro che debolezza! Pochi uomini sono al mondo, oggi, che manifestano una tale vivacità d'intelletto, una vitalità così piena, lieta, lussureggiante. In questo inglese nato nell'epoca vittoriana par che sia risorto qualcosa della sanguigna e sprizzante rigogliosità degli elisabettiani.
Peter \Vust, nato cattolico, s'era gettato ai primi del secolo nell'idealismo e nello scetticismo. Una parola che udì, il 4 ottobre 1918, dal famoso Troeltsch — si badi, protestante — lo indusse a riesaminare i fondamenti della filosofia moderna. E quando uscì, nel 1920, il suo primo libro importante (Die Auferstchung der Metaphysik) era passato dall'idealismo al Cattolicismo e, si noti, per ragioni prevalentemente speculative.
Si posson notare, in lui, le influenze di due poeti, il Blake e il Claudel, ma la via percorsa per tornare alla fede — dopo il passaggio attraverso quella che il Croce ritiene il vero crisma delle intelligenze moderne, cioè l'idealismo — è filosofica: dall'immanenza alla trascendenza, dall'io a Dio. E qualunque sia l'opinione che si possa avere del suo sistema è certo che si tratta d'un pensatore vigoroso, preparato, coltissimo e ancora nella pienezza delle forze (è nato nel 1884). E a questo proposito converrà osservare che questi cosiddetti «deboli» si convertono tutti nella gioventù o nella vigorosa virilità: Rivière a 27 anni; Chesterton a 34; Peter \Vust a 36. Ed io cominciai a scriver la Storia di Cristo nel 1919, a 38 anni.
Non dico che la via da me, senza volere, seguita, sia la migliore né tanto meno ch'io sia diventato un perfetto cristiano: ci vuol altro! Ma il Croce, se vuol credere a questa succinta ma sincera confessione, si persuaderà ch'io non fui trascinato a convertirmi né da una qualsiasi debolezza — avevo 38 anni né temevo le fatiche del pensiero e dello studio — né dal desiderio di rifugiarmi in un asilo comodo — ché anzi l'opera più difficile e dolorosa, per il cristiano, comincia proprio dopo la conversione — né per ignobili smanie di notorietà, ché nel 1921 già ero noto abbastanza in Italia e fuori. Dopo la conversione ho corroborato e confortato la mia fede con nuove ragioni, specie d'ordine storico e logico, ma resta il fatto che il primo impulso mi venne da un prepotente desiderio di servire agli uomini, di manifestar loro, nel modo che meglio potevo, il mio amore per loro. Se questi son sentimenti che possano muovere e infiammare un «torbido e malfido avventuriere dello spirito» lascio giudicare ai galantuomini e, prima che agli altri, al Croce medesimo. Il quale dovrà convenire, poi, che un «avventuriere» il quale resta nella stessa casa per dodici anni di fila e non ha nessuna voglia di lasciarla ma sol di rendersene più degno è un ben singolare «avventuriere».
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